Il conflitto di ieri, il conflitto di oggi, il conflitto di sempre

Il conflitto di ieri, il conflitto di oggi, il conflitto di sempre

M. Lapperier, Il conflitto di ieri, il conflitto di oggi, il conflitto di sempre, in Claudio Papola / Uomo del mio tempo, catalogo della mostra (La Spezia, 29 giugno – 17 novembre 2019) a cura di G. Riu, Publisystem, La Spezia, 2019.

Le tele più recenti di Claudio Papola individuano e rappresentano lucidamente un mondo percorso da una violenza che, permeandone ogni aspetto, diviene paradigma.

L’artista ricorre a un segno dall’andamento elegante, calligrafico, seppur duro, a tratti quasi feroce. Esso agisce come un timbro che non solo riproduce ma ribalta e distorce l’immagine, la duplica, la rende pari al simbolo di un ancestrale conflitto che si consuma in uno spazio in frantumi, eroso nella sua essenza e drammaticamente marchiato da un diffuso senso di prevaricazione. Gli uomini pugnaci di Papola interrompono la staticità del soggetto sottostante, essi vi agiscono indisturbati e, allo stesso tempo, lo profanano, alterandone la continuità percettiva.

Le tele presentate in mostra rielaborano alacremente il suo passato di artista e – in contemporanea – il nostro retaggio culturale. La storia del singolo diviene storia collettiva attraverso la metafora della pittura. Un cortocircuito visivo di viluppi corporei intercalati in ambientazioni a metà strada tra l’attualità e lo storico – tra presente e passato – lasciano intravedere un futuro che si prospetta effimero, illusorio, amaro, ugualmente sopraffatto da barriere architettoniche e mentali che dividono gli uomini e ne pregiudicano inevitabilmente la convivenza sulla Terra.

Papola, concependo la natura umana istintivamente incline all’abuso e alla sopraffazione, sembra aver interiorizzato l’assunto latino homo homini lupus. Tale rapporto è reso ancor più manifesto nella tela in cui egli accosta agli uomini un branco di lupi che, seppur ritratti in atteggiamento pacato, simboleggiano emblematicamente l’istinto predatorio.

L’aggressività, la brutalità, la disumanità diventano categorie esistenziali, entro cui può ricondursi ogni aspetto della storia dell’uomo. Dalle sanguinose guerre combattute tra la Dacia e Roma, alle rovine di Palmira – causate da un’ignoranza ferina comune a ogni fondamentalismo – la violenza sembra attraversare in modo trasversale il tempo e lo spazio, riattualizzandosi e riemergendo, al pari di un fiume carsico, in modo imprevisto. Lotte in Dacia mostra un particolare della Colonna Traiana che colpisce per ferocia: osservando la tela scorgiamo sulla destra un soldato che sta reggendo con la bocca la testa di un nemico. A tale episodio antico, l’artista sovrappone il proprio segno violento, articolandovi un complesso rapporto di pieni e di vuoti, con lo scopo di rimarcare la scena scolpita e, insieme, di universalizzarla. In altri casi Papola recupera l’archeologia per raccontare la drammaticità del presente: la tela intitolata I due volti di Palmira evoca sullo sfondo sfocato l’aspetto originario della statua che, sopravvissuta agli agenti atmosferici e all’azione corrosiva del tempo, ha tuttavia ceduto all’oscena brutalità dell’uomo che l’ha sfregiata, così come rivela, paratatticamente accostato al primo, il suo secondo volto, su cui combattono ancora una volta gli uomini.

Violenza e brutalità non caratterizzano strettamente l’uomo nella sua forma più naturale; come dolorosamente constatato dall’artista, tali sciagure investono altre sfere, non risparmiando nemmeno la dimensione del sacro. Così come irrompono nei complessi archeologici, allo stesso modo esse invadono persino le cattedrali, simbolo per eccellenza del potere religioso ma anche complesso di valori fondanti della società occidentale. Non solo, la violenza penetra e coinvolge anche la cultura, l’arte, i linguaggi espressivi, si insinua persino negli stili architettonici, appare un elemento connaturato alla specie umana. Considerata quasi con spirito antropologico, la violenza, non risparmia nessuno, compromette ogni etnia, ogni civiltà, ogni società. È tragicamente, consapevolmente e definitivamente collocata da Papola all’origine e alla fine di ogni ciclo vitale.